Anche quest’anno è trascorso. Qualcuno direbbe: “eh, meno male!”
Si, meno male. Cosa possiamo trarre da un anno che ci ha tolto la libertà? La pandemia ha scatenato un trauma collettivo, un evento catastrofico che si è intessuto nelle nostre relazioni, nella nostra vita lavorativa, sociale ed economica. È esplosa l’epidemia della solitudine, dell’isolamento e della perdita. Termini nuovi come “distanziamento sociale”, lockdown o pandemia sono entrati nel nostro quotidiano. Stare lontani, lontani dai nostri cari, dalle persone amate, amici, parenti, nipoti. È cambiato il nostro concetto di libertà, o era soltanto un concetto astratto, un qualcosa che abbiamo riscoperto?
Il virus ci ha bloccati, chiusi, ci ha obbligati ad entrare in una casa molto più ristretta: la nostra mente. Una mente atrofizzata, immobilizzata, isolata dal nostro corpo, da quello spazio reale che è la vita. Molti sono caduti nella disperazione del “cosa faccio”? E allora si sono aperti armadi in cui erano sepolti i nostri scheletri, si è scesi giù in quegli inferi delle nostre cantine, rovistando ciò che era vecchio, obsoleto. Un viaggio di regressioni, rielaborazioni e autoriflessioni. Siamo riusciti ad arginare la paura inventandoci l’impossibile, siamo diventati saggi, filosofi, chef, ma siamo andati anche oltre, recuperando un “tempo senza tempo”, diluito, forse infinito. Un tempo sconosciuto, da scoprire, da inventare.
Un silenzio assordante ha invaso le nostre piazze, i nostri bar, i nostri cinema, i giardinetti. Tutto chiuso. Come inventare un tempo di rinascita, in cui la parola speranza o fiducia erano sostituite da immagini desolanti: le bare di coloro che non ce l’avevano fatta, o l’immagine del papa solo, in piazza San Pietro, con la croce fra le mani?
Cos’è la libertà? È un diritto inviolabile di ogni essere umano? Ma ognuno di noi, su questa terra, si sente realmente libero? Libero di potersi curare, amare, lavorare, istruirsi o giocare?
In molti paesi la parola libertà semplicemente non esiste. Ci sono bambini che non hanno mai sperimentato la possibilità di potersi sentire liberi, perché per loro è già abbastanza “sopravvivere”.
Deprivare gli altri dei loro beni essenziali, dei loro diritti, esercitare nei confronti dei più deboli un potere è segno di fallimento. Un fallimento che ha origini remote, radicate nella nostra cultura. Una mancanza di libertà che si chiama abuso, violenza, tratta, carestia, fame, coercizione.
Quindi la libertà di cui parliamo è stata solo una privazione, o qualcosa che invece ha cercato di salvarci la vita? Non ha tolto a nessuno la libertà di parola, di espressione, di comunicazione, poiché i social sono esplosi, abbiamo raggiunto persone in ogni parte del mondo, abbiamo mangiato, bevuto, ballato e cantato. Lo abbiamo fatto mentre centinaia di persone morivano, mentre il mondo continuava a combattere violenza, guerre e carestia. Abbiamo semplicemente dovuto “sforzarci di stare”, stare con noi stessi, quegli sconosciuti che abitano il nostro corpo.
Abbiamo negato l’esistenza di un virus, abbiamo aderito alle più assurde campagne del “Non c’è Coviddi” pur di evitare di guardarci allo specchio, pur di evitare di vedere ciò che il tempo ci aveva restituito: degli uomini e delle donne sconosciute. Forse pavide, vigliacche, opportuniste, o forse semplicemente gentili, amorevoli, buone.
Non siamo e non potremmo essere più quelli di una volta, quelli che eravamo prima di marzo. La parola pandemia contiene il germe del cambiamento, un cambiamento che può generare bene o male. Un cambiamento che ha messo alla luce ciò che eravamo. Che ha sconvolto in modo irreversibile la nostra mente, le nostre relazioni.
Frederich Nietzsche diceva: «Siamo sconosciuti a noi stessi, noi uomini della conoscenza: noi stessi a noi stessi, e di questo c’è un buon motivo. Non siamo mai andati alla ricerca di noi stessi: come sarebbe potuto accadere che un giorno ci trovassimo? (…) Il nostro tesoro è là dove sono gli alveari della nostra conoscenza. Per questo scopo siamo sempre per via, come se fin dalla nascita fossimo animali alati, raccoglitori del miele dello spirito, e di cuore ci preoccupiamo davvero soltanto di una cosa, di “portare a casa” qualcosa».