Il Vangelo afferma che, se non torneremo come loro, non entreremo nel Regno dei Cieli. Molti poeti, antichi e moderni, parlano della loro età come di un tempo idilliaco, in cui dolori, delusioni, inganni della Natura e della vita stessa, paiono ignoti e lontani. I bambini sono un misto di candore e spontaneità, di semplicità e curiosità, intesa come capacità di chiedere il perché delle cose, attingendone il senso profondo con quello stupore da cui Aristotele faceva nascere la stessa ricerca filosofica.
“Tutti i grandi sono stati bambini”, sostiene il Piccolo Principe, ma “pochi se ne ricordano”. Me ne sono ricordato io, il 25 gennaio scorso, quando, raccogliendo l’invito di una maestra che insegna nell’Istituto Comprensivo “Giovanni Falcone” di Grottaferrata, sono andato a mostrare ad una V elementare, come funzionasse il metodo Braille. Non si è trattato di una iniziativa estemporanea ma le due colleghe che hanno deciso di cedermi il loro tempo, la maestra Antonella Fusillo di italiano e la maestra Franca Tondini, di religione cattolica, hanno inserito la visita in un percorso sull’uguaglianza. Quando sono arrivato, regolarmente autorizzato dal dirigente scolastico, professoressa Francesca Natali, che ringrazio, i bambini erano preparati.
La mia visita si incastrava tra alcune lezioni teoriche sull’articolo 3 della Costituzione, e la Giornata della Memoria, estremo e più atroce monito contro ogni società diseguale.
Inizialmente ho posto un problema: noi, afferma la nostra Costituzione, siamo tutti uguali. La diversità di razza, di religione, di censo, non deve essere motivo di discriminazione. Accade, però, che alcune persone partano, per nascita, più indietro degli altri. Come se in una corsa, un atleta iniziasse la gara dieci metri prima. Abituato al Liceo dove insegno religione cattolica, ho dovuto fare in primo luogo uno sforzo di adattamento linguistico: agendo, mi accorgevo del fatto che la semplicità non rendeva meno vero quanto dicevo, ma restituiva una immediatezza spesso perduta nel rapporto con gli adolescenti.
Sulla cattedra avevo sistemato alcuni oggetti: la tavoletta braille, con fogli e punteruolo, un piccolo libro, sempre a puntini, una vecchia macchina della Olivetti, un computer, un cellulare con sistema operativo Android. Oggetti che rappresentavano sia altrettante tappe della mia biografia, del mio accesso allo studio e, poi, tramite questo, al lavoro, sia una metafora inclusiva con una sinergia tra utensili di uso comune e ausili predisposti per chi non vede. Tante sfide per i 23 piccoli protagonisti del laboratorio, riassunte però in una sola: quella di toccare. Sentire la diversa consistenza dei fogli, il metallo freddo della macchinetta, i soldi spicci che mi ero portato, affinché li riconoscessero, senza vedere, dal peso o dai bordi, alternativamente lisci o rigati.
I bimbi hanno anche scritto in Braille: solo per Giacomo si è trattato di un percorso netto. Come un perfetto sciatore schiva i paletti, così lui ha evitato nello slalom dei puntini tutte le insidie. Ma non era una gara, era solo un assaporare il vivere altrimenti. Era un cimentarsi fatto di domande e risposte, perché mentre lo sciatore si lanciava nella prova a cronometro, tra puntini da fare guardando su un alfabeto che riportava, anche in scrittura per lui leggibile le varie lettere, gli altri potevano porre domande. Hanno voluto sapere come avessi studiato, come andassi al cinema e come capissi un film, come usassi il telefono cosa che, naturalmente, ho mostrato. Credo che in loro resterà una traccia, nella consapevolezza che la vista sia un grande dono, ma che esistano anche altri modi di vivere e di vedere.
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