Per trattare certi argomenti è spesso necessario che siano parte integrante della propria esperienza personale, affinché possano essere affrontati con cognizione di causa e sensibilità, anche se d’altra parte potrebbero risentirne obiettività e lucidità. Ma io intanto mi ripropongo, ripercorrendo la mia esperienza, di poter essere di conforto e supporto a chi dovesse ritrovarsi in situazioni simili.
Dunque: ho scoperto di essere affetta da retinite pigmentosa a circa 26 anni, in precedenza i vari disturbi che avvertivo li attribuivo alla forte miopia da cui sono affetta sin da bambina ed alla distrazione… Le difficoltà in condizioni di scarsa luminosità ed il continuo urtare erano parte integrante della mia vita e per tutti ero la piccola “sbadatella”… fino a che non ho iniziato a scontrarmi con oggetti davvero ingombranti per non essere visti o con persone che per me sbucavano fuori d’improvviso dal nulla.
Decisi di approfondire e mi recai presso un oculista di fiducia che sospettò subito la patologia e mi fece eseguire specifici controlli, quali l’elettroretinogramma (ERG), per valutare la funzionalità dei fotorecettori, cellule retiniche preposte alla visione centrale e periferica; lo studio del campo visivo, per valutarne l’ampiezza; ed il visus, per valutarne l’acuità. Premetto che nella retinite pigmentosa vengono spesso compromessi aspetti peculiari della visione, principalmente il campo visivo, ossia la visione periferica, la capacità di vedere in scarse condizioni di luminosità, l’adattamento ai cambi d’essa e la tolleranza a forti fonti luminose, spesso la discriminazione dei colori ed anche il visus, ossia la visione centrale.
L’esito fu inequivocabile: alterazione dell’elettroretinogramma, sintomo di una alterata funzionalità dei fotorecettori e riscontrabile anche in assenza di ulteriori sintomi, e quindi esame fondamentale per la conferma della patologia anche con visione centrale e periferica ancora integre. Ma non era il mio caso poiché il visus era sin da piccola piuttosto compromesso ed arrivava a stento ai 4 e 5/10 ed il campo visivo, allora valutato in gradi, era di circa 40 gradi su un campo visivo normale che dovrebbe essere intorno ai 180 gradi.
Avevo 26 anni ed una vita davanti. La diagnosi mi fu riferita asetticamente e con brutalità, con parole aspre e taglienti: “E’ affetta da una patologia genetica degenerativa, si prepari ad un futuro da non vedente!”.
Ne rimasi scioccata, le mie poche certezze vacillarono… Piansi, ero sola e ritornai a casa in sella al mio motorino, in preda a dubbi e paure. Ne parlai col mio fidanzato, con cui eravamo insieme da pochi mesi, che decise di rimanere al mio fianco e con cui adesso ho una splendida famiglia, ma non fu facile il percorso che seguì. Nessuno mi spiegò cosa fosse di preciso un campo visivo e quanto dovesse essere normalmente, ed io pensai di essere comunque al principio della patologia così continuai la mia vita di sempre, tra lavoro e guida, non solo del motorino ma anche dell’auto. Ebbene sì, avevo pure preso la patente: ai tempi non si effettuavano controlli adeguati e nessuno si era accorto della grave compromissione del mio campo visivo, delle difficoltà la sera, dell’abbagliamento e della scarsa capacità d’adattamento ai cambi di luce e nella percezione dei contrasti. Scrissero soltanto che avrei dovuto guidare con le lenti per il deficit del visus. Ritornerò in seguito sull’argomento poiché è fondamentale.
La mia vita proseguì invariata, con le difficoltà che avevo sempre avuto ma a cui mi ero comunque adattata. La nostra mente ha una straordinaria versatilità, l’indispensabile capacità di arginare gli ostacoli e creare alternative sfruttando le risorse fisiche ed intellettive a disposizione, ed un’interessante ed utile plasticità. Dunque continuai a lavorare negli ambiti più svariati, gli ultimi in ordine temporale furono la cameriera nei ristoranti e l’operatrice di call center, e continuai a guidare il motorino, e talvolta anche l’auto, inconsapevole delle mie reali limitazioni visive. Poi mi sposai e smisi di lavorare e guidare perché non ne avevo più la necessità e per dedicarmi alla famiglia. Fino al giorno in cui andai a sottopormi ad un’ulteriore visita. Il medico era cambiato nella struttura a cui ero solita rivolgermi ed avevano introdotto l’esame del campo visivo computerizzato. L’esito fu sconvolgente: il mio campo visivo binoculare in percentuale era di circa il 3% rispetto al 100% di quello normale, ed il medico mi disse di fare domanda di cecità in base alla legge 138/01 che contempla il parametro del campo visivo indipendentemente dal visus per il riconoscimento dello status di cieco. Ero scioccata poiché non credevo di essere peggiorata a tal punto. E riflettei su quante azioni avessi intrapreso nell’assoluta inconsapevolezza del pericolo a cui mi ero sottoposta…. Mi percorse un brivido gelido lungo la schiena e gli occhi mi si annebbiarono di pianto.
Adesso dovevo riorganizzare tutta la mia vita, il primo passo fu psicologico: ritrovare forza e determinazione, obiettivi e prospettive…. Il secondo fu approfondire la conoscenza con la subdola patologia che mi stava sconvolgendo la vita. E così mi resi conto di aver davvero rischiato molto, soprattutto per aver continuato a guidare senza che nessuno me lo impedisse.
Ed è il momento di riprendere l’argomento che avevo momentaneamente lasciato in sospeso – il rilascio ed il rinnovo della patente – poiché è cruciale e critico. Come già riferito, ai tempi in cui presi la patente non si effettuavano controlli adeguati e nessuno si rese conto delle mie reali limitazioni visive. Oggi i parametri sono molto più restrittivi. In particolare per la patente B, quindi dell’autoveicolo, è necessario possedere i seguenti requisiti: i soggetti con visione binoculare devono possedere una acuità visiva complessiva di almeno 7/10 con non meno di 2/10 nell’occhio peggiore, anche con lenti correttive: il campo visivo deve essere ampio 120 gradi orizzontalmente, 50 gradi a destra e a sinistra e 20 gradi in alto e in basso, e non deve avere difetti in sede centrale: si deve valutare la sensibilità all’abbagliamento e possedere una buona velocità di recupero da esso, si deve possedere una buona visione crepuscolare, visione in condizioni di scarsa luminosità, e buona sensibilità al contrasto. Se allora mi avessero sottoposta a tali valutazioni diagnostiche non mi avrebbero mai rilasciato la patente. Ed ancora oggi ritroviamo alla guida conducenti privi dei requisiti per potersi mettere su strada, ed il pericolo è costantemente in agguato per coloro che guidano in queste condizioni e per coloro che incrociano il loro percorso.
E’ poi attraverso i social, grazie ai quali sono venuta in contatto con moltissimi disabili visivi e con altrettante svariate e specifiche problematiche, che mi sono resa conto di quanto tra le più frequenti condizioni di disagio sociale e psicologico vi sia proprio la scoperta tardiva della patologia, almeno per coloro che rientrano nella mia fascia d’età o precedente. Molti come me non si sono resi conto del severo stadio di gravità della patologia fino a quando non è divenuta assolutamente invalidante, in parte per la straordinaria adattabilità del nostro cervello ed in parte per l’inconsapevolezza di una dimensione di normalità. Dunque hanno proseguito la loro esistenza basandosi su presupposti errati e fuorvianti e nel momento della scoperta hanno dovuto rivalutare un’intera vita… ed assicuro che non è assolutamente facile!
Questa società spesso non è predisposta ad accogliere il disabile nel riconoscimento dei propri diritti e nel rispetto delle proprie difficoltà, non permette integrazione e rivalutazione, supporto pratico, logistico e psicologico Questa società lascia spesso il disabile allo sbando e allo sbaraglio in preda alle sue fragilità, insicurezze, limitazioni e difficoltà. Ed è per questo che altrettanto spesso ho riscontrato da parte del disabile la seria difficoltà ad accettare la nuova condizione, a parlarne, a cercare supporto fisico e psicologico, a prospettarsi un futuro di dignità e soddisfazioni, e la perseveranza nell’incoscienza e nella testarda convinzione di poter proseguire su sentieri già percorsi ma che ormai si son fatti irti, ardui e tetri.
Sarebbe davvero auspicabile e meraviglioso risvegliarsi in una realtà in cui rispetto, sensibilità, empatia, integrazione, collaborazione e disponibilità fossero parte integrante nella costruzione della dimensione psicologica, sociale e culturale in ciascuno di noi!