Il 27 novembre 2021, nel Palazzo della Cultura di Catania, si è tenuto il convegno “Cattivi si nasce o si diventa?”, durante il quale si sono susseguiti gli interventi di diversi professori e avvocati che hanno fatto luce sui pensieri e le motivazioni che si celano dietro la mente di un aggressore.
Ad iniziare l’incontro, la dottoressa Maria Costanzo, psicologa e psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza, che ha incentrato il suo intervento sull’evoluzione delle relazioni primarie di attaccamento tra bambino e caregiver in condotte persecutorie. Riporta i casi di A., sette anni, e di V. ed L., di otto.
“Incontro A., di 7 anni, in procura. È accompagnato dai nonni paterni. È minuto nell’aspetto, ma con una voce determinata. Inizia a raccontarmi dell’incidente domestico accorso alla madre mentre stirava: il ferro ha preso a fuoco ed io e papà abbiamo provato a spegnerlo e abbiamo chiamato la nonna. La sua voce forte, definita, il suo racconto netto e troppo chiaro mi fanno paura: non sta ricordando, sta raccontando una storia, ed io gli chiedo di parlare della sua famiglia. Papà non aveva lavoro ed io andavo con lui nelle case chiuse, e lo aspettavo fuori e vedevo se arrivava qualcuno. La mamma andava a lavorare…. Prendeva qualcosa, ma a volte non portava i soldi e papà si arrabbiava. Quella sera lui si è arrabbiato perché non aveva portato quella cosa che lui fumava e allora ha preso il bidone e glielo ha buttato addosso, ha acceso la mamma. Mi diceva che buttava l’acqua, che sapeva di benzina, e non si spegneva. È salita la nonna, la mamma del padre, e poi ha chiamato l’ambulanza. Mi guarda e mi dice: ma ora papà dov’è? La mia risposta è l’avvio del suo contatto con la realtà”.
“Anche V. ed L. hanno visto la stessa fine della loro madre. Hanno 8 anni, ma sembrano già troppo grandi, troppo consapevoli. L. è in terapia da due anni; il primo anno gli concedo l’incessante richiesta di ricongiungersi col padre, dimenticando le sue condotte maltrattanti: sì, mi faceva uscire il sangue con la cintura, ma io ero un monello. L. agiva anche lui con i suoi coetanei attraverso condotte aggressive, facendo ciò che riteneva che servisse. In fondo, l’amore degli educatori che si occupano di lui e l’elaborazione dolorosa della realtà attraverso la terapia hanno fatto di lui un bambino diverso, che oggi chiede di avere una famiglia…. Non so cosa sarà di A. e di tutti i bambini come lui, ma so che L. forse l’ho salvato. È giusto pensare che A. è un bambino che forse si identifica con l’aggressore ed è brutto pensare a questo bambino perché A. è l’esempio di coloro che non hanno realizzato mai un buon attaccamento.”
Le testimonianze riportate fanno intendere chiaramente che il vissuto di violenza tra le mura domestiche è strettamente collegato allo sviluppo di un tipo di attaccamento “preoccupato”.
“Chi ha un attaccamento preoccupato è colui che ha sempre bisogno di trovare conforto all’esterno e di essere costantemente gratificato; quindi, l’altro serve per trovare la sua identità. Ecco che quando l’altro si allontana la mia identità si svuota. Il crollo narcisistico ha poche facciate: devo riempire subito il mio buco, o altrimenti la mia conseguenza sarà il suicidio.” Così la dottoressa Costanzo descrive questo tipo di legame logorante che definisce l’identità del bambino maltrattato. Spiega, in seguito, che la memoria di ciascuno di noi è implicita, si sviluppa già a partire dalla vita intrauterina. È una memoria sensoriale che getta le basi per il comportamento del bambino. A supporto di ciò, riporta la testimonianza di uno dei suoi pazienti: un bambino che voleva sempre stare nudo e correre nudo per casa. “Non aveva alcuna condizione medica”, dice. Era però un grande pretermine e, come tale, aveva vissuto nell’incubatrice, dove si sta nudi. “Ecco qui che capiamo che nella sua memoria era inscritta l’esperienza dello stare nudo come un’esperienza importante”.
Allo stesso modo, fa riferimento alle donne in gravidanza che vengono maltrattate dal partner in quanto “portatrici” di un terzo, fisico quanto immaginario, nella relazione di coppia. La violenza da parte del partner si inscrive nel sistema limbico del feto, che inizia a mettere in atto movimenti di espulsione “come se avesse bisogno di evacuare l’esperienza dolorosa attraverso i movimenti del corpo”. Oltre ad aiutare la vittima, conclude, bisogna pensare anche ai figli che vedono, vivono e subiscono altrettanta violenza, spesso in silenzio.
Successivamente abbiamo assistito all’intervento della dottoressa Antonella Di Stefano, direttore UOC Pediatria e PS Pediatrico – AOE Cannizzaro, la quale ha analizzato in particolar modo il tema dell’epigenetica. La dottoressa esordisce sottolineando come sia già stato ampiamente dimostrato che il maltrattamento infantile influenza negativamente lo sviluppo sociale, comportamentale ed emotivo. Infatti, vari studi hanno verificato che gran parte delle patologie psichiatriche sono dovute proprio a dei maltrattamenti infantili. La situazione di disagio vissuta dal bambino, che può essere anche un attore passivo, comporta una modificazione dello sviluppo cerebrale che a sua volta contribuisce all’insorgere di problemi neuropsicologici.
Successivamente la dottoressa cita un articolo estratto dal libro “Maltrattamento e abuso nell’infanzia”, che ha lo scopo di trarre le evidenze tra relazioni negative e fattori di rischio in età adulta, esaminando i meccanismi biogenetici.
Dunque, innanzitutto occorre specificare cosa sia l’epigenetica: si tratta di quella branca di studi che si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo, quindi senza alterazione della sequenza del DNA. Questo vuol dire che esistono dei fattori ambientali che alterano il fenotipo di quell’individuo: geneticamente è in un modo ma determinate situazioni che hanno influenzato la sua vita hanno portato alla modificazione del fenotipo, tramite un fattore biochimico specifico. A questo punto la dottoressa Di Stefano propone un esempio per chiarire al meglio la questione, ovvero quello dei gemelli. I gemelli monocoriali provengono da una stessa cellula-uovo e quindi sono identici, ma attraverso uno studio è stato dimostrato che allontanando i due gemelli sin dalla più tenera età e facendoli crescere in due contesti completamente diversi (ad esempio uno in campagna e l’altro in città), i due svilupperanno un fenotipo completamente differente. Questa modificazione del fenotipo inizia già in utero, anzi è proprio in questa finestra temporale che si modifica potenzialmente tutta la struttura: se durante il periodo della gravidanza subentra qualsiasi tipo di stress, sia esso fisico o emotivo, ecco che viene modificato il cosiddetto software epigenetico. Lo stress materno è una delle cause principali di forma differente che può insorgere col fenotipo.
Per tale motivo è necessario far riferimento all’omicidio di una ragazza avvenuto poco tempo fa in Emilia-Romagna per opera dell’ex compagno. Perché è da attenzionare che questo carnefice, a sua volta, fu vittima di violenza: la madre fu uccisa dal compagno. Ciò ci fa comprendere quanto sia importante il ruolo dell’epigenetica poiché il sistema mentale del giovane sarà stato deviato da un’esperienza vissuta come vittima passiva e si sarà innescato in lui questa forma di aggressività. Ma, purtroppo, le vittime passive sono assolutamente sconosciute e lo restano per molto tempo se non compaiono quei piccoli alert.
Inoltre, continua la dottoressa, è stato condotto un lavoro nel 2015, più specificamente uno studio su animali, che ha stabilito il ruolo di processi epigenetici e la correlazione tra il comportamento materno e lo sviluppo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Dai risultati emerse che in questi mammiferi, vissuti con una madre non biologica e meno amorevole, vi erano modificazioni nei recettori dell’ipotalamo. Ciò significa che l’alterazione epigenetica ci pone dinnanzi ad un dilemma, ovvero quello di individuare in tempo il soggetto che potenzialmente potrà diventare un carnefice a causa di mutazioni genetiche.
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