Le parole che usiamo nel nostro quotidiano, anche nelle più banali conversazioni, hanno un peso. Le “parole della violenza” alla donna che leggiamo sui giornali, nei cartelloni pubblicitari, parlano di discriminazione, aggrediscono, pesano come una condanna morale sulle donne.
Anche se non ce ne accorgiamo, quelle parole alimentano gli stereotipi comunemente accettati, quei modi di dire, quei luoghi comuni, quelle che noi pensiamo siano battute “divertenti” sulla diversità di genere. E invece contribuiscono ad aggravare la violenza fisica e psicologica che le donne subiscono. Esiste una narrazione tossica delle violenze, creata da un linguaggio sessista, frutto di una cultura patriarcale che ci ingabbia e contribuisce in maniera significativa a una percezione distorta della violenza di genere in ogni sua forma.
I dati dei femminicidi, secondo il rapporto di Eures, reso noto in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2020, hanno messo in luce una situazione allarmante. Praticamente 91 vittime in 10 mesi. Una donna uccisa ogni tre giorni.
Il 2020, dunque, è stato un annus horriblis anche per quanto riguarda i femminicidi, il peggiore in termini di percentuali dal 2000. Nella ricostruzione dei fatti, nei femminicidi, la cornice non può essere quella dell’amore, ma deve essere quella della violenza.
Le narrazioni romanzate e sbagliate, come dipingere una vita di coppia “idilliaca” e raccontare l’atto di violenza come un raptus improvviso, “una tempesta emotiva”, come si legge da alcune sentenze, o “delitto passionale”, non affronta la questione, ma la devia. Talvolta si legge che l’uomo “non accettava la separazione” o uccide per “troppa passione” e questo viene indicato come il movente dell’omicidio, quando la realtà sarebbe molto più complessa e si omette che l’omicidio è stato preceduto da altre forme di violenza.
“Il femminicidio è solo l’apice del potere che la comunità storica degli uomini esercita da millenni e di cui uno degli effetti negativi più devastanti è la sottomissione non solo dei corpi ma anche della mente delle donne” – ci dice Lea Melandri – per cui è difficile riconoscere sia i meccanismi del potere di cui le donne, loro malgrado, hanno fatto proprie certe dinamiche per sopravvivere, sia anche il riconoscimento di queste parole “maleDette” e devianti .
I media hanno una grandissima responsabilità e dovrebbero essere i primi a smetterla di colpevolizzare le donne vittime di violenza, perché significa violentarle o ucciderle ancora una volta.
In Italia abbiamo il grosso problema della comunicazione giornalistica, infatti alcune espressioni assurde che colpevolizzano la donna le ritroviamo anche in testate affermate. È in questo contesto di carenza e di necessario ripristino del significato delle parole che si inserisce il lavoro prezioso di Chiara Cretella e Inma Mora Sánchez nel loro libro “Lessico familiare. Per un dizionario ragionato della violenza contro le donne” (ed. Settenove, Cagli, 2014). Secondo le autrici, per parlare di violenza è necessario un vocabolario preciso, una grammatica con le sue regole, perché ogni parola abbia la sua specifica funzione ed ogni concetto indichi precisamente un’esperienza che possa essere nominata e descritta nel giusto modo. “Dare nome vuol dire non solo dare voce ma anche far esistere, ed è da questo statuto di esistenza che si può procedere per attivarsi e prendere coscienza, posizionarsi contro”. (ct. p.15)
Per raccontare questi soprusi devono esserci le parole giuste. Per questo in “Lessico familiare”, sono presenti quelle parole di donna, ma anche quelle parole dell’oppressione, della subalternità, che affondano le radici in un dominio di genere storicamente antico e mai cessato. Sono presenti tutti quei termini che spesso sentiamo pronunciare nei media, per strada, nei luoghi di lavoro, termini come “centri antiviolenza”, “femminismo”, ma che sono stati svuotati di quel significato profondo, capace di dare un nome ed una matrice esatta alla violenza maschile sulle donne.
Il libro contribuisce a fare chiarezza su alcune parole, provando a eliminare i pregiudizi, per esempio sul concetto di femminismo. Nella mentalità comune viene ad essere contrapposto al maschilismo, ma mentre quest’ultimo «è basato sulla credenza di superiorità degli uomini sulle donne» (cit. p.42) il femminismo è quel movimento diretto alla conquista della parità dei diritti nei rapporti civili, economici, giuridici, politici, sociali e della dignità, per tutti, indipendentemente dal sesso di appartenenza.
L’impegno delle autrici in questo testo è un primo contributo importante ai gender studies. Chiara e Imma, infatti, ribadiscono: «non esisteva, prima del nostro lavoro, un dizionario della violenza di genere» (cit. p.22).
Questo “dizionario ragionato” ribadisce i punti di vista delle due autrici, maturate in anni di studio, lavoro e ricerca su questi fenomeni e si fa strada fra le battaglie femministe degli anni 60 e 70, nei concetti di famiglia, maternità, sessualità.
All’interno delle sue pagine possiamo trovare una precisa mappatura delle categorie di pensiero, riferimenti teorici e culturali con dati e fonti, sia nazionali che internazionali.
Nel testo vengono affrontate le modalità con cui il corpo femminile è stato visto e interpretato, le svariate forme che hanno assunto nei secoli i delitti di genere, per poi approdare alle modalità con cui si può rispondere alla violenza, sia attraverso le attività dei centri antiviolenza, che attraverso le campagne nazionali ed internazionali per sensibilizzare la popolazione al fenomeno. Molto spazio è dedicato alla sezione «V», ossia violenza, nella quale sono racchiusi i lemmi che identificano il fenomeno della violenza di genere.
Le studiose partono da una descrizione delle forme di violenza, da quella di genere a quella religiosa, dalla caccia alle streghe alla violenza culturale, e forniscono spunti per riflettere su altre tematiche, come ad esempio la tratta e lo sfruttamento della prostituzione, le spose bambine, gli aborti forzati, per poi passare all’analisi di tutte le definizioni di violenza di genere: quella psicologica, quella fisica, quella economica, lo stalking, o i nuovi termini quali il recente fenomeno del gaslighting, la sindrome di Stoccolma, la dipendenza affettiva, le molestie, le mutilazioni genitali e tante altre.
La parte finale del volume pone l’attenzione sui percorsi di fuoriuscita dalla condizione di violenza, sui percorsi di counselling per le vittime, sui concetti di resilienza, sul sostegno alle operatrici del Centro antiviolenza, per lo stress della propria professione e le patologie a cui possono andare incontro (burn out, etc).
Questo è un libro che può essere una guida e una mappa su cui muoversi per apprendere e approfondire il tema della violenza, che ci può aiutare a comprendere meglio e più nello specifico il vocabolario e le definizioni che fondano la violenza di genere.
Vuole contribuire a cambiare la storia, vuole voltare pagina attraverso il linguaggio che è lo specchio della società e della sua cultura. Dalla società patriarcale, dove certe parole erano innominabili e le violenze subite dalle donne erano gesti che scaturivano dal potere che li alimentava, ad una società che usi e applichi il nuovo “Lessico familiare”.
Una nuova società dove le parole come “parità dei diritti” siano azioni concrete, dove si riconosca il “dolore nella violenza”, dove la parola “cura” sia un balsamo per le ferite e un progetto da cui ripartire, dove si riconoscano nel concreto le parole come “uguaglianza” e “libertà”, senza che si debba pagare con la vita.
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