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VIOLENZA E DISABILITÀ, QUANTE ACCEZIONI E INTERPRETAZIONI!

Una giungla totalmente disseminata di barriere architettoniche, | incomprensioni e menefreghismo, sono forse forme di violenza?

Il tema della violenza è molto delicato e per trattarlo occorre tatto ed empatia. Io vorrei però estendere una riflessione sul termine violenza in sé, partendo dalla mia personale esperienza, di donna e disabile, e da un presupposto di soggettività, spero condivisibile.
Spesso si sente parlare di violenza. E, altrettanto spesso, sembra quasi non tangerci. Sembra quasi riguardare altri. Certo, prevale l’indignazione, il giudizio, la condanna, il malessere. Ma raramente colgo quell’empatia che deriva solo da un’immedesimazione intima e profonda. Ché poi la vittima e il carnefice sono davvero così distinti e distanti? O è solamente un retaggio culturale, uno sguardo superficiale, un pregiudizio ancestrale?
Nella mia vita ho conosciuto da vicino la violenza, e forse per questo tendo spesso a fare un passo indietro, ad astenermi da frettolosi giudizi o da conclusioni avventate. Ho conosciuto la violenza fisica e verbale che ha profondamente minato lo sviluppo della mia autostima e della mia personalità, la profonda depressione degli adulti intorno a me, che avrebbero dovuto infondermi fiducia e speranza, l’abbandono delle persone care ed il conseguente vuoto esistenziale, le molestie sessuali ed il rifiuto di me stessa, sensi di colpa e vergogna inclusi. Sono dunque stata una bambina e adolescente molto sola, spaventata, fragile e insicura. Il mio rifugio erano i libri e le svariate vite e viaggi immaginari in cui potermi immergere completamente per evadere da una realtà angosciante, inaccettabile e soffocante. Sono cresciuta costruendomi da sola, mattone dopo mattone, ho tirato su una parvenza di autostima. Una parvenza di allegria e normalità. Aggrappandomi ai nodosi ma salvifici rami della speranza e dell’ottimismo con tutte le mie forze e la mia volontà.
Ed ecco sopraggiungere un nuovo ostacolo. D’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. La retinite pigmentosa e la scoperta di una disabilità visiva, invalidante e degenerativa. Che metteva in discussione tutto. Il mio futuro. Le mie speranze. I miei progetti. Ancora una volta, una violenza nella mia vita. Stavolta non per mano altrui, ma del destino. Se esiste. Della vita. Del Karma. Del caso. Che ciascuno lo interpreti a modo proprio. E mi sono nuovamente rimboccata le maniche, ho ripreso in mano la mia vita. Tentando di ricostruirla. Mi sono documentata. Ho ottenuto i miei diritti. Ho creato una famiglia. Ho ripreso gli studi. Ma ho smarrito la mia libertà, ciò che adesso più  mi manca, talvolta tanto da mancarmi il fiato. Mi è stata strappata dalle mani con violenza e ferocia. Senza darmi nemmeno il tempo di farmene una ragione, di costruirmi un’illusione. E poi, ancora oggi, a distanza di anni, e dopo ciò che con fatica sono riuscita a costruire, capita di sentirmi etichettare come la fortunata di turno, che vive all’ombra dell’uomo che le sta accanto e da cui dipende in forma esclusiva, sminuita e declassata a oggetto inanime e informe. E ancora lo sguardo pietoso di chi ti incontra per strada con il tuo bastone bianco, ormai fedele compagno di viaggio, e scruta ogni tuo passo o gesto per capire se tramutare quello sguardo in giudizio e accusa. Già, perché, all’occorrenza, siamo poveri disgraziati che suscitano solo tenerezza e pena, o falsi ciechi e truffatori senza scrupoli o ancora debosciati che vivono alle spalle dei contribuenti. E aggiungerei anche i siparietti in cui se ci incontrano con un accompagnatore si sentono in diritto e quasi dovere di rivolgervisi, chiedendo ciò che avrebbero dovuto e potuto chiedere a noi direttamente, neanche fossimo invisibili o disabili mentali gravi. Per non parlare della giungla in cui siamo costretti a vivere, disseminata di barriere architettoniche, incomprensioni e menefreghismo. E non è forse questa ulteriore violenza? Esser costretti a dover costantemente dimostrare valore e onestà per arcaici e ottusi pregiudizi, a dover lottare strenuamente per ottenere legittimi ed inalienabili diritti?
Dunque, violenza. Termine forse esso stesso abusato. Ché, in fondo, forse esistono solo vittime. Di un sistema. Delle esperienze. Della vita. Del caso. Una sprezzante roulette russa in cui ciascuno può trovarsi invischiato. Ed esser vittima o carnefice, o entrambi nel corso di un’esistenza. È una fortuna ritrovarsi sani, nella famiglia giusta, con esperienze sociali positive. E se ciò non accade quanto di quel che siamo è colpa nostra o frutto di un meccanismo imprevedibile, controverso e implacabile che tenta costantemente e prepotentemente di sopraffarci? Spesso sento dire che la sofferenza debba rendere migliori, anche fra noi disabili, come se per ciò che la vita ci ha tolto avessimo ricevuto in cambio i doni della bontà, della saggezza, dell’empatia e dell’ottimismo, ma non è assolutamente così. Anzi spesso le esperienze negative della vita acuiscono pessimismo, acredine, invidia, intolleranza, cinismo e pregiudizio. Sia che le sofferenze derivino dall’ambito sociale, familiare, medico, e che siano psicologiche, fisiche o emozionali. Dove sta il confine tra bene e male, giusto e sbagliato, morale e amorale? A volte credo sia piuttosto labile e soggettivo. Figlio legittimo di pregiudizi e preconcetti, vincoli e recinzioni in cui scegliamo di rifugiarci. Forse perché donano una parvenza di sicurezza e stabilità nel caos imprevedibile dell’esistenza.
Forse dovremmo semplicemente cercare di sradicarne ogni forma all’origine.  Al principio. Di ogni vita. Seguendo nel percorso educativo i nostri stessi figli, da genitori. Ed i figli altrui, attraverso le istituzioni preposte. Ma sulle granitiche basi del rispetto,  dell’empatia, della solidarietà, della fiducia, della speranza e della libertà. Ché questa società è fatta di  tasselli unici e fondamentali in un complesso ingranaggio che può funzionare soltanto se si presta attenzione al dettaglio. In una visione d’insieme che valorizza ogni componente e senza il quale rischia di esserne compromesso il progresso verso un futuro che si spera migliore, in cui il termine violenza cada in disuso e divenga vetusto. Utopia.

Patrizia Faccaro

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Patrizia Faccaro

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