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E SE VALENTINO FOSSE UN DISABILE VISIVO?

Ne parliamo con ipovedenti di ambo i sessi | Ottenendo risposte che vi sorprenderanno

In prossimità di quello che è il mese dedicato all’amore, vorrei parlare di approcci e relazioni sentimentali, però da un punto di vista specifico, ossia quello degli ipovedenti e delle interazioni affettive con i normovedenti. Se si parla di amicizie, è tutto relativamente più semplice poiché in gioco vi sono meno aspettative, responsabilità e coinvolgimento, sebbene sia argomento complesso anche questo. Ma se si intende iniziare una relazione sentimentale, allora le situazioni in gioco sono complesse e delicate.
Ho provato a parlarne con alcuni ipovedenti, di entrambi i sessi e di età mature e con una certa esperienza, e devo ammettere che molte risposte mi hanno sorpresa. Una prima domanda che ho posto è stata: “In quale momento e contesto della conoscenza, reale o virtuale, parli della tua disabilità e con quali parole?”
Le risposte sono state svariate, ma un approccio comune è stato il parlarne abbastanza presto nella conoscenza, sia in ambito virtuale che reale, con la motivazione che, essendo un fattore pervasivo ed evidente della vita quotidiana, sarebbe comunque emerso da sé. Il modo in cui lo si comunica è spesso semplice e diretto, quasi da manuale, senza eccessivi fronzoli ed edulcorazioni, proprio per porre l’altra persona di fronte ad una chiara ed inequivocabile realtà. E qui mi è stato fatto notare che forse vi è una differenza tra il parlarne virtualmente e senza conoscenza reale, e attraverso un confronto diretto, faccia a faccia. Spesso le informazioni che noi forniamo per spiegare la nostra patologia sono asettiche e formali, e la prima reazione di chi, comunque, non ci conosce abbastanza è chiedere maggiori informazioni e soprattutto documentarsi attraverso internet. Ed allora si aprono diverse strade e prospettive. Noi tendiamo a fornire risposte più specifiche ma pur sempre astratte, che quindi difficilmente faranno comprendere una reale e concreta quotidianità, ed internet fornirà informazioni molto più tragiche e negative, proprio perché generiche e tecniche, che non renderanno giustizia al variegato e complesso mondo della disabilità visiva, inducendo a false immagini e opinioni sul disabile, esaltandone gli aspetti di dipendenza e difficoltà e sminuendone la reale autonomia e le svariate abilità che facilmente emergerebbero da una conoscenza reale. Anche se talvolta, anche in questo contesto, le difficoltà che emergono possono derivare più dall’insicurezza soggettiva, legata alla disabilità, all’esporsi al giudizio altrui e al timore di suscitare compassione, che da reali difficoltà che potrebbero essere superate chiedendo sì l’aiuto necessario ma mostrando la propria autonomia e capacità, anche con ironia e carattere. Poi c’è chi ne parla in momenti successivi, dopo una maggiore conoscenza virtuale e telefonica, proprio per darsi l’opportunità di farsi prima conoscere meglio caratterialmente e magari farsi apprezzare ed interessare maggiormente, in modo da suscitare maggior attenzione e curiosità verso la patologia, con la conseguenza di approfondirne i dettagli e mostrare maggior comprensione di ogni aspetto d’essa nella vita quotidiana, dandone anche il giusto peso e la giusta prospettiva.
E da qui nasce il mio interesse per la risposta alla seconda domanda, ossia: “Quali timori e aspettative hai nel momento in cui decidi di parlare della tua patologia e quali sono le reazioni e le conseguenze di tale scelta?”
E qui vi sono alcune differenze, in timori e aspettative del disabile e reazioni del normovedente, legate soprattutto al genere. Ovviamente generalizzando per stereotipi, per un uomo disabile è più difficile rapportarsi con una normovedente, poiché lui sente maggiormente su di sé la responsabilità di rappresentare una figura stabile, forte, protettiva, e la disabilità lo pone in situazioni in cui dover dipendere e chiedere aiuto, in cui suscitare compassione, quindi in condizioni d’insicurezza e fragilità. Invece per la donna è più semplice lasciarsi guidare, aiutare e proteggere. Anche se poi non si può generalizzare ed ogni situazione è a sé, dipendente da circostanze e personalità. E qui ci ritroviamo naturalmente a valutare le reazioni alla rivelazione della patologia. Ed anche in questo caso sono talvolta strettamente legate al genere. Gli uomini sono stereotipicamente indotti ad un ruolo di protezione e responsabilità per cui sono più propensi a prendersi cura della donna, nonostante la disabilità. Al contrario della donna che potrebbe veder sminuita la virilità in una disabilità evidente ed invalidante. In una società che è ancora troppo legata a stereotipi maschilisti e desueti. Al di là di queste argomentazioni, sorgono altri problemi legati strettamente alle conseguenze della patologia in una relazione stabile, ossia la possibilità di un ulteriore peggioramento delle condizioni e di una maggiore dipendenza, e la probabilità di avere dei figli sani.  Questi sono punti cruciali che spesso inducono il o la normovedente ad interrompere qualsiasi conoscenza, nonostante interesse ed affetto. Ed anche in questo caso mi è stato fatto notare che, al di là degli stereotipi e delle generalizzazioni di genere, un fattore importante per l’accettazione della patologia da parte del normovedente è parte integrante della personalità, come una sorta di dono per cui, per esperienze personali dirette di malattie su sé o persone vicine o semplicemente per una maggiore capacità empatica, si è maggiormente predisposti a comprendere e superare la disabilità e le sue conseguenze in un rapporto di coppia, cogliendone similitudini col sé e punti di vista positivi ed ottimistici. Anche se talvolta può sfociare in un atteggiamento eccessivamente protettivo ed invadente, assolutamente in buona fede, ma che potrebbe far sentire il disabile sottovalutato nelle sue capacità individuali e soffocato da pressanti e continue attenzioni.
E siamo giunti all’ultima domanda, forse la più cruciale: “Pensi di cambiare atteggiamento in futuro e che una maggiore informazione e sensibilizzazione possano migliorare i tuoi approcci futuri?”
E qui le risposte sono state diverse, in funzione della personalità e delle esperienze soggettive. Coloro che hanno attribuito il fallimento delle relazioni esclusivamente alla patologia, che considerano un limite insuperabile e fatalmente invalidante, quasi un confine sociale che li divide dai normovedenti e li ghettizza attraverso pregiudizi e preconcetti, hanno risposto di non ritenere di dover cambiare atteggiamento e che qualunque maggior informazione e sensibilizzazione sarebbe inutile a tal fine, poiché il vincolo è strettamente connesso alle conseguenze di una patologia fortemente invalidante. Poi vi sono altri che, nonostante siano realizzati in una relazione stabile, non ritengono importanti maggior informazione e sensibilizzazione, se non per altri fini, poiché il vincolo è il livello di empatia strettamente soggettivo. Infine altri ipovedenti ancora, ritengono invece che ogni relazione dipenda da una correlazione di fattori non strettamente dipendenti dalla patologia, personalità propria e altrui, livello di empatia, circostanze, e prendono in considerazione la possibilità di cambiare il proprio atteggiamento, spesso insicuro e negativo, al fine di migliorare i loro rapporti interpersonali, e ritengono quindi importante una maggiore informazione e sensibilizzazione affinché possano migliorare i livelli di empatia sociale e di conoscenza della patologia, così da suscitare minor timori, preconcetti e pregiudizi, che minano alle fondamenta qualsiasi relazione interpersonale.
Ovviamente esistono svariate tipologie di disabili con personalità distinte e per molti la disabilità non costituisce un disagio nelle relazioni interpersonali, se non in misura strettamente connessa alle esigenze pratiche.
Questo mio articolo, lungi dall’aver pretesa di scientificità, si pone come obiettivo semplicemente il mostrare uno spaccato di vita assolutamente parziale e soggettivo nella prospettiva di diversi ipovedenti, ma non rappresentativi del variegato e complesso mondo della disabilità sensoriale visiva, che spero abbia tuttavia arricchito il vostro bagaglio di conoscenze in merito ed offerto un umile spunto di riflessione.

Patrizia Faccaro

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Patrizia Faccaro

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