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IL BELLO DI UN LABORATORIO BRAILLE

Nel liceo Gullace di Roma, un’esperienza | che ha scaldato il cuore di allievi vedenti

Anche quest’anno si è svolta, presso il Liceo Scientifico e delle Scienze Umane, statale, “Teresa Gullace Talotta” di Roma, la “Settimana dello Studente”. Con altri colleghi, su mandato del Collegio dei Docenti, ho fatto parte della commissione mista per organizzare questo momento. Luci ed ombre, come sempre, ma non è di questo che vorrei parlare, lo farò nelle sedi proprie. Piuttosto vorrei riferire di una piccola, ma significativa esperienza: un laboratorio Braille in cui un ristretto gruppo di allievi vedenti, si è cimentato con questo alfabeto. Erano presenti anche alcuni docenti di sostegno ed una allieva portatrice di bisogni educativi speciali.

Il Braille si è fatto presente in due forme: una per così dire eterea, l’alfabeto che campeggiava sulla LIM (la lavagna interattiva multimediale), l’altra tangibile, i tre alfabeti cartacei che avevo preparato. Avevo con me anche due scatole di medicinali che plasticamente hanno veicolato la dicotomia accessibile-inaccessibile: una completamente priva di segni per noi leggibili, l’altra con un’etichetta Braille molto particolareggiata, recante la tipologia di farmaco, ovvero punture, il nome, il dosaggio, eccetera. Travolti dalla curiosità gli allievi scrivevano, mentre la mia mente riandava al mio liceo, quando alla loro età, Braille e macchina dattilografica erano il mio pane quotidiano.

La gioia ad un tempo loro e mia, nel vedere le loro parole, corrette o comunque con qualche errore, puntini in mezzo spostati in basso. É stato ad un tempo bello ed utile: bello perché i giovani e le giovani, hanno imparato al contempo vivendo e facendo, immersi in una condizione nuova in cui il fare ed il vivere non passavano per il vedere, che loro riconoscono come veicolo privilegiato, quasi esclusivo. É stato bello, e forse utile, anche per i docenti presenti, solo alcuni dei quali avevano avuto sporadici contatti con il Braille. Ma è stato bello soprattutto per me, vedere l’entusiasmo con cui molti si gettavano alla scoperta di questo mondo. Una ragazza, in particolare, credo abbia preso più contatto con i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue speranze. Vedere la gioia con cui tentava e, dopo ogni sbaglio, tentava ancora, è stato quasi commuovente.

I partecipanti erano in maggioranza appartenenti ad una classe, la quinta che seguo da cinque anni, ma vi era anche una allieva di prima, portatrice di bisogno educativo speciale. Numericamente non erano in molti, ma abbiamo lavorato bene.

Penso che, compatibilmente con la didattica dell’insegnamento della Religione Cattolica, nelle classi farò ulteriori esperienze di scrittura. Scrivere toccando è per loro qualcosa di inaudito, fare senza vedere, sperimentare come sia possibile, capire che, entro certi limiti, può essere arricchente. Naturalmente i ragazzi che hanno partecipato non conoscono il Braille ma tramite questa esperienza, forse, conoscono meglio se stessi. Quei fogli spessi, fitti di puntini ordinati, quella necessità di orientarsi in uno spazio assai ristretto, il casellino in cui ogni punto assume significato dall’incontro con gli altri punti: tutto questo può essere, a suo modo, metafora di un mondo.

In un’economia dello spreco e del superfluo, avere possibilità combinatorie limitate, per cui lettere e numeri usano gli stessi simboli preceduti da un segno identificativo, appare veicolo, se solo ci soffermiamo a pensare, di valori e esperienze profonde.

Potremmo dire che il Braille è una scrittura dialogica e relazionale in cui ogni puntino assume un valore, se isolato, ma lo muta se combinato con gli altri. Questo è bellissimo ed a suo modo parla: perché l’altro, ogni altro, ci spiazza, ci sposta, ci desitua dall’idolatria di noi stessi: l’altro per sesso, per religione, per opinioni politiche. L’altro, ogni altro, proprio come ogni puntino, rende la nostra esperienza più viva e più ricca. Braille per loro, certo, ma anche per me. Braille e tecnologia informatica non vanno contrapposti: non solo perché una barra e l’uso di molti strumenti li interseca in modo fecondo, ma perché contrapporre, vivere la realtà in modo staticamente manicheo rappresenta una forma di estremo depauperamento della sua complessità.

Ora sto scrivendo al computer con una sintesi vocale che ripete le mie parole, segnalandomi eventuali errori ortografici. Potrei farlo con un punteruolo, con una dattiloBraille, in altri modi che ora non mi sovvengono e o che qualcuno domani inventerà. Potrei farlo sulla tastiera digitale di un telefonino. Ogni modalità possiede, al suo interno, pregi e limiti.

Il Braille ha tanti pregi, certo, ma ha il limite di non essere notissimo, restringendo in questo modo le nostre potenzialità comunicative a chi conosca questo alfabeto. In origine, però, il Braille, dilatò il nostro comunicare, facendoci uscire dall’analfabetismo, dall’impossibilità di conquistare la cultura e, con lei e grazie a lei, la libertà. Questo non significa che non debba essere insegnato, sarebbe un imperdonabile errore, ma bisogna essere consapevoli di questa circostanza.

Un grande arricchimento del Braille è quello di situare la persona, fornendo significato alle idee di: alto, basso, destra sinistra.Come infatti alto, basso, destra e sinistra, ma anche la posizione delle lettere in una parola, assumono un significato nel foglio, così, anche nella vita ha senso e questo senso va attinto come ricchezza, che una cosa sia in alto a destra o in basso a sinistra.

Serve anche per orientarsi nello schermo o sulla tastiera, di un telefono digitale.

Lunga vita al Braille, non tanto per uno sterile, secondo me, orgoglio categoriale, ma per i valori che veicola, per la sua utilità anche come mezzo di orientamento spaziale. Insegniamolo, amiamolo e facciamolo amare.

Nella foto, da sinistra, Camilla Piselli e Giulio Borrelli della classe V scrivono in Braille sotto la supervisione del professore Conti

Alessio Conti

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Alessio Conti

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