Secondo la Lega del filo d’oro, le disabilità sensoriali comportano serie difficoltà nella comunicazione, nell’autonomia e nelle capacità di apprendimento, impediscono inoltre la percezione dell’ambiente circostante e ostacolano le relazioni con altre persone, fondamentali soprattutto all’interno dell’ambiente scolastico, come abbiamo imparato durante la pandemia. Per questo è stato stabilito che per gli alunni con disabilità la didattica debba svolgersi in presenza, anche se in zona rossa. Il problema è che la scuola non deve mirare solo a compensare un deficit, ma deve avere come obbiettivo l’integrazione dei ragazzi nell’ambiente scolastico e nella società. Proprio per questo motivo è necessario che un gruppo di alunni della classe, privo di disabilità, partecipi alla lezione in presenza, interagendo con l’alunno cieco o ipovedente.
Secondo un articolo pubblicato sul sito Tecnica della scuola, però, il Ministero dell’Istruzione ha lasciato libertà ai presidi di decidere in che modo agire, senza dare alcuna indicazione. Secondo lo stesso articolo non tutti gli studenti con disabilità svolgono le loro lezioni con i compagni, ma spesso sono soli con l’insegnante di sostegno. Sta per fortuna scomparendo, anche se esiste ancora in rari casi, la divisione in alunni “capaci” e alunni “non capaci”. Gli alunni con difficoltà e svantaggio nell’apprendimento (per cause fisiche, psicologiche, sociali, per svantaggio linguistico o di natura sociale, per disturbo specifico dell’apprendimento o per disabilità) non sono alunni “non capaci”, sono alunni che hanno il diritto di ricevere una didattica personalizzata; si tratta, infatti, di alunni Bes , acronimo di Bisogni Educativi Speciali (secondo la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012; legge 104/92 e legge 170/2010), e che necessitano quindi di apprendimenti e strumenti “speciali”
Naturalmente preferire questa distinzione di “capaci/non capaci” sarebbe come chiedere ad un pesce di arrampicarsi su un albero: non ci riuscirà e passerà tutta la sua vita a credersi stupido. Nel caso della disabilità visiva, a volte sembra quasi che si richieda ad un cieco o ad un ipovedente di dover vedere. In realtà, per aiutare queste persone basterebbero solamente un po’ di attenzione in più e un adeguato supporto tecnologico.
Una ragazza ipovedente da noi intervistata, che frequenta un liceo locale, ci ha spiegato che, grazie ad una programmazione personalizzata e all’ausilio di un tablet o di un computer riesce a studiare normalmente, seguendo lo stesso programma didattico dei suoi compagni e, tralasciando qualche difficoltà in disegno, ottiene ottimi risultati e soddisfazioni scolastiche. Ci ha anche spiegato che a scuola la sua disabilità non ha influito molto sulle sue relazioni interpersonali, anche se è stata in passato vittima di pregiudizi.
La tecnologia è fondamentale nella vita delle persone con disabilità multisensoriali. Gli ausili tecnologici possono aiutare la riabilitazione in innumerevoli modi. L’aiuto più importante che possono dare è insegnare un codice comunicativo. In diversi casi si usano per esempio comunicatori e “switches”, cioè speciali pulsanti colorati che permettono ad adulti e bambini con disabilità sensoriali gravi di comunicare, fare scelte, ricevere stimoli e partecipare alle attività quotidiane. Lo switch insegna ai bambini il concetto di “causa ed effetto”: una base da cui partire per costruire abilità più complesse. Bisogna infatti stimolare i bambini fin da piccoli, per poter potenziare al meglio le loro abilità.
Per studiare in classe è meglio usare un libro braille, che permette di leggere facendo però attenzione all’ambiente circostante, mentre per studiare a casa si può anche usare un audiolibro, che richiede però di concentrarsi solo su quello.
Per evitare che il bambino si senta escluso, si potrebbe chiedere anche agli altri bambini di giocare con giochi e dispositivi multi-sensoriali. Questi giochi dovranno avere vibrazioni, suoni, forme a rilievo che siano riconoscibili al tatto, libri tattili e con decorazioni plastiche sporgenti, materiale grafico in rilievo (come i chiodini inseriti in una griglia), fogli di plastica su cui disegnare a matita, cuscinetti morbidi su cui poter lavorare con spilli e cordoncini.
Queste attività aiuterebbero ancor di più il bambino affetto da disabilità a costruire una propria idea dello spazio, insegnandogli a paragonarlo al proprio corpo. Tale processo dà poi il via ad un fenomeno detto “astrazione a mosaico”, che permetterà ai piccoli di conoscere ed esplorare lo spazio. Inoltre questi giochi stimolano la formazione di sinapsi, favorendo una maggiore creatività in tutti i bambini.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è che aiutare un compagno di classe affetto da disabilità avrebbe sicuramente una buona ricaduta sulla maturità e sulla crescita interiore di ciascun ragazzo e insegnerebbe una preziosa lezione: sfruttare le proprie forze e imparare a trarre forza dalle proprie debolezze.
Fonti:
https://www.tecnicadellascuola.it/alunni-disabili-a-scuola-mentre-la-classe-e-in-dad-protestano-i-docenti-di-sostegno-perche-in-classe-solo-noi-senza-i-prof-delle-discipline
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