L'illustrazione mostra uno schema generico del sistema visivo

Nelle puntate precedenti, abbiamo focalizzato la nostra attenzione verso le protesi retiniche, analizzando pregi e difetti dei tre dispositivi per i quali, ad oggi, è possibile procedere con l’impianto nell’essere umano. Tra i temi messi in evidenza, aldilà di cosa realmente si possa intendere per “vedere” una volta attivata la protesi, si è posta l’attenzione sui requisiti necessari per poter essere candidati all’impianto, requisiti che di fatto tagliano fuori chiunque non presenti più alcuna attività elettrica residua nello strano retinico. Meno che mai, chiunque abbia legata la propria disabilità visiva ad altre problematiche oculari (su tutte glaucoma o traumi a danno degli occhi) o a carico del nervo ottico.
Di fatto, per questa tipologia di non vedenti, ad oggi non vi è alcuna soluzione tecnologica che possa indurre anche solo la percezione di luci ed ombre, così come accade (e come ampiamente discusso) con Argus II, Alpha AMS o Iris II. In questo articolo proveremo, dunque, ad analizzare quale sia lo stato dell’arte in quelli che sono, almeno pubblicamente, i progetti sperimentali in corso come proposte alternative. Va fatta una premessa: come visto nei precedenti articoli, il nostro sistema occhio/cervello basa l’esperienza del vedere sulla conversione dello stimolo luminoso in stimolo elettrico, da trasmettere attraverso il nervo ottico fino alla corteccia visiva, ovvero alla zona del nostro cervello che ha sede nella regione occipitale (la parte posteriore della nostra scatola cranica). È qui, dunque, che tale segnale elettrico viene elaborato dal nostro cervello, generando la percezione visiva così come la viviamo quotidianamente. Tale considerazione porta, dunque, alla deduzione che, nel caso in cui si riuscisse a fornire il giusto stimolo elettrico in tale zona del cervello, qualcosa a livello visivo è molto probabile, se non certo, che accada. Su tale ovvia intuizione si basa l’idea di una protesi corticale visiva: realizzare una matrice di elettrodi (dal punto di vista tecnologico del tutto simile a quelle viste nelle protesi retiniche) da impiantare a stretto contatto con la corteccia visiva, in modo che si possa stimolarne elettricamente i neuroni, provando a sostituire quanto accade già in un soggetto sano con il segnale trasportato dal nervo ottico. Dando per scontato che la conoscenza medico-chirurgica e quella tecnologica siano già mature per poter effettuare il giusto impianto nella corteccia visiva, convertire in distribuzione di segnale elettrico la sequenza di pixel catturata da una videocamera posta su degli occhiali ed inviare tale segnale al chip interno, uno dei problemi più importanti da affrontare è quello relativo al comprendere in che modo tale immagine debba essere mappata nella matrice di microelettrodi. Infatti, se nel chip retinico tale mappatura segue le leggi dell’ottica, ben note da secoli, che dimostrano che la luce emessa da ciascun punto che compone l’immagine viene proiettata in maniera capovolta, mantenendo la relativa posizione originale, attraverso il passaggio in una lente (che nell’occhio corrisponde al cristallino, previo attraversamento della luce attraverso la cornea), poco ancora si sa su come viene distribuito dal nervo ottico tale segnale elettrico, una volta giunto alla corteccia visiva. Informazione fondamentale se vogliamo provare ad indurre la percezione di immagini che possano, in qualche modo, avere una forma corrispondente alla sagoma o all’oggetto inquadrato dalla telecamera presente negli occhiali.
Le sperimentazioni ad oggi note sul tema, sono il progetto “Direct-to-Brain Bionic Eye” dell’australiano Monash Vision Group (che vede la collaborazione di Monash University, Grey Innovation, MiniFAB e Alfred Health) e il sistema Orion, di Second Sight (la stessa azienda che produce Argus II). Va subito precisato che, se a proposito del primo progetto ben poco viene ad oggi diffuso su quello che è il reale stato dell’arte, nonostante le basi dello stesso siano state poste ben 7 anni fa, sul secondo l’aspetto comunicazione è opportunamente curato ed è già noto, ad esempio, che Second Sight ha ricevuto da pochi mesi l’autorizzazione da parte della FPA (Food and Drug Administration) statunitense a procedere con la sperimentazione sull’uomo. Si è dato il via, dunque, lo scorso 20 novembre ad un trial clinico, per il quale si prevede una prima conclusione entro il primo gennaio del 2023, che vedrà coinvolti fino a 5 pazienti senza alcuna percezione luminosa in entrambi gli occhi. Pazienti ai quali verrà impiantato il sistema Orion, monitorando innanzitutto la sicurezza tanto del dispositivo elettrico, quanto della tecnica chirurgica necessaria all’impianto e, a seguire, la reale percezione visiva ottenuta, la sua utilità nella vita quotidiana (ottenere esclusivamente la percezione di lampi di luce, senza alcuna corrispondenza a quanto osservato attraverso la telecamera, non avrebbe ovviamente alcun valore per i pazienti) e, non ultimo, l’eventuale presenza di ripercussioni sullo stato di salute generale dei 5 soggetti, nei 5 anni di monitoraggio.
Quali aspettative avere? Premesso che anche in questo caso l’idea è quella di indurre la percezione di fosfeni (il cui numero ed estensione dipenderà dal numero di microelettrodi presenti nella matrice impiantata nella corteccia visiva), anche “solo” (rigorosamente tra doppi apici) riuscire a raggiungere gli stessi risultati ottenuti ad oggi con le protesi retiniche, sebbene ampiamente distanti dal concetto comune di vedere, quanto meno servirebbe a ripristinare una sorta di pari opportunità per un ben più ampio campione di persone che hanno perso la vista per varie cause. Certo, anche in questo caso va tenuto nella dovuta considerazione che un soggetto adulto che ha perso la vista già nei primi mesi di vita, o chi comunque ha perso del tutto la funzionalità visiva da diversi anni, è molto probabile, se non certo, che possa aver perso totalmente qualsiasi forma di risposta elettrica anche nella corteccia visiva. Ciò significa che, comunque, anche questo tipo di soluzione si porterà dietro inevitabilmente dei soggetti esclusi. Ma, una volta raggiunta una certa maturità nella tecnologia, tale ostacolo potrebbe comunque essere superato attraverso una rapidità di intervento, al fine di evitare di andare incontro ad uno stato di atrofia delle zone corticali interessate nel paziente.
Un ruolo, sebbene di gran lunga inferiore a quello dei due progetti appena illustrati, ma che riteniamo non sia vano, lo ha anche il nostro progetto visual BCI (Brain Computer Interface), del quale avremo modo di parlare in un successivo articolo, che si pone l’obiettivo di provare a formulare un modello percettivo attraverso il quale comprendere in che modo mappare le immagini visualizzate nella distribuzione elettrica del segnale da utilizzare, come stimolo, sulla corteccia visiva primaria. Conoscenza da mettere ovviamente al servizio di chi porta avanti la suddetta sperimentazione clinica diretta sui pazienti. Vedremo anche come l’approccio attualmente seguito da noi, possa portare ad ipotizzare interessanti risvolti anche in campo diagnostico e non solo nel contesto delle patologie invalidanti della vista.

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